L’illusione della libertà
di Gianluigi M. Riva
Il Wallace di Gibson, la gridava mentre lo sbudellavano.
Altri nella storia, hanno combattuto, si sono sacrificati, addirittura dati fuoco per questo nobile concetto. Concetto che è tanto percepibile, quanto difficilmente definibile. Anzi, più che il concetto stesso di libertà, è difficile disegnare i confini entro i quali essa esiste o non esiste.
John Stuart Mill ci ha provato, ma gli è servito un intero saggio. Eppure i nostri testi costituzionali ci illudono di garantirci la libertà con poche righe di previsione normativa.
Quindi? Siamo liberi?
Tecnicamente sì. Praticamente lo siamo finché non ci fermiamo un po’ a pensare con criteri diversi. Ad una prima occhiata, in effetti, la nostra Carta fondamentale sembra garantirci un ampio spettro di tutele della libertà, ognuna per ogni ambito. In effetti sulla carta è così, ma le divergenze si percepiscono nel lato pratico della vita di tutti i giorni. Sono divergenze dettate, anzitutto, dal fatto che lo Stato deve bilanciare gli interessi del singolo con quelli del collettivo. E quelli del collettivo con quelli dello Stato!
Ecco un piccolo nodo. Lo Stato come entità, vince su tutto. Anche su quel collettivo che dovrebbe tutelare.
L’esistenza di uno Stato, infatti, si basa su una sorta di tacito patto coi singoli/collettivi. Tu singolo ti aggreghi, mi conferisci il potere di dettare le regole e giudicare la loro infrazione, quello di imporre tasse e quello di gestione del territorio comune e io, Stato, ti garantisco pace e benessere, regole condivise e criteri di giudizio uniformi, servizi e accesso ai beni comuni.
Insomma la più alta espressione dell’intelligenza sociale.
Il problema sta nel fatto che chi compie la scelta di aderire al patto è libero. Chi – nel tempo – la subisce no.
Arriviamo ad un dato pratico, un esempio tutto italiano. Quanti di noi hanno scelto tra Repubblica e Monarchia?
Sulla popolazione vivente, direi, l’incidenza è molto poca. Tutti coloro che, a causa dell’età in primis, o di altre motivazioni (ad esempio quei milioni di italiani estromessi dal voto), non abbiano potuto votare questa scelta, l’hanno subita. E la subiscono ancora.
Lo Stato non offre gli strumenti per cambiare radicalmente se stesso. Non offre la possibilità di cambiare idea.
Da ciò possiamo arrivare a comprendere il concetto di “soggiogamento” alla libertà imposta dallo Stato. Chi nasce all’interno di un territorio, se in possesso di particolari condizioni, sarà automaticamente cittadino di uno Stato. Chi possiede la cittadinanza, non se ne può sottrarre.
L’adesione allo Stato, non ammette recesso. Ma non ammette nemmeno accettazione. Se siamo proprietari dell’orticello in campagna, non potremo decidere di sottrarlo alla signoria dello Stato.
Se siamo proprietari di una casa, non possiamo rifiutarci di pagare tasse e imposte, solo perché non vogliamo usufruire dei servizi che lo Stato ci offre (o non offre …perché le imposte, non corrispondono a nessun servizio. Si devono e basta).
Quindi quanto siamo liberi da questo punto di vista?
Non ci è concesso rinunciare alla cittadinanza, né sottrarre i nostri beni dal patto sociale dello Stato, né sottrarre noi stessi da tale patto e alle sue condizioni. Ma non ci è nemmeno concesso cambiare tale patto. Un patto vincolante, in maniera unilaterale (solo per noi, perché lo Stato può cambiare le regole del gioco), al quale non abbiamo aderito per nostra scelta, ma che ci incatena.
Si potrebbe pensare che la revisione costituzionale sia – nello schema di uno Stato moderno – la maniera che viene concessa al cittadino – grazie al voto – di poter cambiare lo Stato.
Non è così. La revisione permette di cambiare determinati contenuti della Costituzione, ma non di mutarne i criteri costitutivi. Per tornare all’esempio di prima, non si può mutare la Repubblica in Monarchia.
Questo ci porta alla conseguenza che, se si vuole cambiare patto con il proprio Stato, il proprio Stato non lascia altra scelta che farlo in maniera sovversiva. Cosa che è, ovviamente – e ragionevolmente – punita dallo Stato stesso, il quale si auto-protegge.
È infatti ragionevole che uno Stato abbia punti fermi che rendano stabile la propria natura. Ma se un Sistema fosse veramente illuminato, permetterebbe di considerare al proprio interno le modalità per adeguarsi al dinamismo sociale e consentire ad ognuno (o ad ogni collettività) di scegliere liberamente il proprio patto.
Ovviamente non si potrebbe rimettere in discussione tutto ogni anno (considerando che ogni anno, un tot di nuovi maggiorenni sono stati estromessi dalla precedente scelta). Ma si potrebbe prevedere che ogni 10/15, lo Stato predisponga la forma di un suo (possibile) rinnovamento.
Forse questo gioverebbe molto di più alla stabilità di quanto si possa pensare.
Certo, per farlo serve anche una popolazione adeguatamente educata e partecipativa. Educata al senso civico ed alla basilare cultura sociale e giuridica, necessaria per affrontare una scelta di questo tipo (ma come lo è quella di ogni voto).
Anche perché, se vogliamo guardare la democrazia rappresentativa attuale con altri occhi – occhi un po’ più disillusi –, possiamo notare che essa si risolve nel mettere una “X” su una scheda ogni 5 anni.
Un po’ lontano dal concetto di libertà.
La rigidità dello Stato invece, costringe la nostra libertà entro stretti confini, al fine di mantenere il patto sociale. Ad esempio, una delle più grandi libertà di cui lo Stato ci priva è quello della difesa. Ne cives ad arma ruant, è il principio sul quale si fonda ogni Stato. Il cittadino delega allo Stato la propria difesa, sia preventiva, che successiva, la quale deve avvenire secondo modalità e con strumenti, rigidamente predeterminati.
Ora, tutto ciò risulta ragionevole …quando funziona.
Quando invece ci troviamo, come in quest’epoca, in un nuovo “Medioevo Normativo”, dove alla tutela sociale promessa sulla carta, non vi è un corrispettivo responso reale nel quotidiano, il patto traballa.
E il “cittadino” (il suddito), inizia a sentire il giogo imposto dallo Stato e a percepirlo come fastidioso. Così i primi passi sono quelli di una ribellione singola – magari inconsapevole -, quando iniziamo a difenderci e farci giustizia da soli.
Il secondo passo è iniziare a contrastare attivamente lo Stato, nelle sue azioni, vissute come soprusi. È quanto è avvenuto in alcuni casi con Equitalia. È quanto avviene da un po’ in Val di Susa. Al di là della ragione o del torto sulla questione di merito, in Val di Susa avviene qualcosa che, se non combacia con lo Stato, né diviene il peggior nemico: il senso di Nazione.
Senso che è alla base di guerre di indipendenza nella storia. Guerre che hanno portato a quei medesimi Stati che ora non ammettono cambiamenti.
La storia è fatta di rivoluzioni che diventano regimi.
Il senso di Nazione invece, manca a quelle che vengono definite bande sovversive, i cui ideali e scopi sono differenti. In comune con quanto già descritto c’è la volontà di sottrarsi a un patto non voluto.
Il problema è che c’è al medesimo momento la volontà di imporre un patto differente. Non una scelta.
Il dato incoerente di chi combatte il patto con lo Stato, è che quando lo Stato (comprensibilmente) contrattacca, allora ci si vuole difendere contro di esso con le regole dello Stato medesimo. Magari quelle regole che si vorrebbero cambiare.
I veri ribelli, nel bene o nel male, non accettano di difendersi con le regole imposte dagli altri. Un po’ come fece Saddam Hussein, che disconobbe il Tribunale che lo stava giudicando e che rifiutò di difendersi.
I ribelli spesso muoiono. Ciò che li accomuna è che muoiono liberi. Poi gli uomini e la storia li giudica buoni o cattivi solo a seconda dell’esito della battaglia finale.
Forse più di tutti, i ribelli hanno capito che la libertà non è fare o non fare, decidere o meno. La libertà è, semplicemente, scegliere.
Magari consapevolmente.