Una riflessione su Meravigliosamente di Giacomo da Lentini (I parte)

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A questo punto, proviamo a porre domande di teoria (relativamente alla critica testuale) a un testo celebre della letteratura italiana delle origini: la canzonetta Meravigliosamente del “Notaro” Giacomo da Lentini. Cominciamo dal primo ambito: incertezza su ciò che vi è, ovvero sui manoscritti che tramandano il testo. Attualmente la canzone del notaro è attestata dai tre manoscritti fondamentali della poesia italiana del Duecento, convenzionalmente indicati con le sigle A, B e C:

 

A: Vaticano Latino 3793, Bibl. Apostolica Vaticana, Città del Vaticano;

B: Laurenziano Redi 9, Bibl. Medicea Laurenziana, Firenze

C: Banco Rari 217, Bibl. Nazionale Centrale, Firenze

 

Riguardo all’edizione del testo, le edizioni di riferimento, dalla più recente alla più datata, sono quelle curate da Pasquale Stoppelli, Roberto Antonelli, Franca Brambilla Ageno e Gianfranco Contini. Pertanto il discorso su ciò che diciamo vi sia sembrerebbe fermarsi qui. A tutt’oggi, sappiamo che il testo è contenuto in tre codici: conosceremmo quindi tutto l’esistente di questo testo.

Chi ci dice che un domani non riusciremo a trovare un manoscritto che tramandi proprio la sua versione siciliana (si pensi al caso di Quando eu stava in le tu’ cathene, prima lirica d’amore – per l’appunto in siciliano – rinvenuta nel 1999 da Alfredo Stussi)? La questione è aperta, non chiusa. Per il momento, gli editori hanno potuto fornire l’edizione del testo sulla base dei testimoni di cui siamo in possesso. Ma non è detto –anzi  che il testo che oggi leggiamo sia corrispondete all’ultima volontà del copista toscano. Se ci limitassimo al presente, quindi, potremmo parlare solo di stato di certezza permanente. Non assoluta. E la filologia dovrebbe continuamente consapevolizzare questa propria caratteristica intrinseca.

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All’incertezza sulla quantità di manoscritti esistenti si collega e consegue l’incertezza su ciò che per l’editore vale. Questa incertezza ha modo di manifestarsi soprattutto nella scelta della lezione tra varianti adiafore. Come in precedenza abbiamo spiegato, in caso di recensio aperta è necessario ricorrere a una valutazione che tenga conto dei criteri della lectio difficilior e dell’usus scribendi dell’autore. Ma – si domanda il filologo – in che modo comportarsi quando vengono meno questi criteri? Un esempio evidente è nei versi 3 e 4 del testo in questione (riportiamo la prima stanza della canzone dall’edizione Contini):

 

Meravigliosamente

un amor mi distringe

e mi tene ad ogn’ora.

Com’om che pone mente                 4

in altro exemplo pinge

la simile pintura,

così, bella, facc’eo,

che’ nfra lo core meo                      8

porto la tua figura.

 

Al v. 3 A e B presentano la forma sovene seguita dalla forma tene al v. 4. C riporta la sequenza tenepone. L’usus scribendi, come detto prima, non è molto utile: entrambe le sequenze, pur conoscendo lo stile di Giacomo, sono indifferenti e interscambiabili. Per quanto concerne la lectio difficilior, sicuramente la forma sovene risulta più complessa di tene. Tuttavia, come spiega Stoppelli, anche secondo questo criterio si arriverebbe a una sostanziale incertezza. E infatti, se Contini mantiene tenepone, Ageno e Antonelli preferiscono soventene: ma nessuno dei due “ha ragione”.

Un caso del tutto analogo si trova nel verso successivo: l’alternanza tra le forme com’om (uomo)/ com’on (uno). Anche qui vi è incertezza: se Contini, Ageno e Antonelli scelgono com’om, Stoppelli preferisce la forma com’on, attestata altre volte non solo nello stesso Giacomo, ma anche in altri poeti siciliani. È dunque chiara l’importanza che riveste la valutazione del filologo nell’allestimento del testo critico. Ovviamente, un giudizio può avere (e nella maggioranza dei casi l’ha) un riscontro di dati oggettivo; ma in generale la scelta che l’editore compie, come prima si diceva, è di carattere sostanzialmente valutativo: quindi incerto.

La domanda di teoria che si genera in questa circostanza è strettamente legata al terzo ambito dell’incertezza tra editore e manoscritto, ovvero su chi il filologo sia. Un editore competente, per “tendere” maggiormente alla certezza, non dovrebbe limitarsi alla collazione dei tre testimoni e al proprio iudicium quando si tratta di scegliere tra varianti equivalenti. Una forma, infatti, potrebbe essere preferita a un’altra giacché questa potrebbe ricalcare un testo precedente, una fonte, un’opera che circolava a corte e che era conosciuta alla cerchia dei lettori.  In altre parole: cosa si leggeva nella corte di Federico II? Quali testi circolavano?  È possibile ricostruire il contenuto di una certa biblioteca? E ancora: quale lingua si parlava? Con quali caratteristiche?

Eccellenti grammatiche storiche della lingua italiana, come quella di Gerard Rohlfs, sono in grado di dirci che forme come singa e linga (vv. 52-3) erano diffuse nell’Italia meridionale del XIII secolo; ma non esiste purtroppo quasi nessuno studio in grado di rispondere alle altre domande. Ovviamente esistono delle esatte ricostruzioni storiche, ma non sono stati mai condotti studi finalizzati alle questioni che in questa sede ci interessano. Occorre insomma capire che un testo è soprattutto espressione di una determinata realtà, collocata in un preciso ambiente storico-geografico, che il filologo deve profondamente conoscere.

 

Lorenzo Dell’Oso

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